Questo è l’inizio di un mio racconto che figura nell’antologia edita da L’Erudita “I più grandi numeri 10 della storia del calcio”. Il libro, che raccoglie una serie di testi dedicati ai più grandi fantasisti ma anche a interpreti semisconosciuti del pallone, è disponibile in libreria in questi giorni
La sagoma dell’aereo faceva a rimpiattino tra le nuvole, ora più basse. Sembrava eluderle come per gioco, come in un funambolico dribbling ad alta quota. Di fronte, la fettuccia della strada, pallida come le venature sul legno di betulla. L’auto avanzava pigra tra i campi già in odore di autunno.
Dennis sbadigliò, anche se si sentiva decisamente sollevato; l’aereo era oramai poco più della sua traccia, una scia confusa tra i cirri sfilacciati dell’alba. E poi quella strada la conosceva bene: da Rotterdam fino ad Eindhoven, scendendo giù verso il Belgio, ancora qualche decina di chilometri. Ricordava perfettamente le prime trasferte con la maglia dell’Ajax in pullman, seduto qualche fila dietro al boss con la sigaretta accesa.
Johann Crujiff l’aveva scelto che aveva poco più di diciassette anni per schierarlo in prima squadra. “Era troppo perbene, per cui decisi di sottoporlo a un corso accelerato di calcio professionistico, continuare a giocare nelle giovanili non avrebbe giovato alla sua timidezza”.
Timido lui? Magari riservato, elegante, garbato: una questione di nascita, media borghesia olandese, calvinismo alacre, ma appartato. Il calcio di Bergkamp non sarà mai il calcio di un timido, però. Certo, non è pozzolana, tacchetti infangati, sostituzioni all’ultimo minuto per lucrare tempo, entrata da dietro stile: “fagli sentire il fisico, mettigli paura”. E’ un calcio alla Vermeer, pitturato di esattezza e irradiazione, riflette bellezza a servizio di un’idea, di un quadro d’insieme.
Fosse nato nel Seicento sarebbe vissuto anche lui a Delft e l’avrebbe percorsa scartando e calciando una palla di stracci lungo tutti i vicoli e le straducce, così come Jan l’ha ritratta tutta per trattenere e trasmettere la luce di ogni cantone: perché ogni casa, ogni tetto, ogni finestra ha diritto allo stesso riflesso di bellezza.
Ed è anche la lezione del calcio ‘all’olandese’. Banalizzando: non ci sono ruoli, ma possono esserci stelle. Chiunque può essere interprete del calcio totale, ma a una condizione, che sia un congiurato della bellezza, perché quel modulo non prevede un collettivo socialista, piuttosto una società di mutuo soccorso dove vige il principio della sussidiarietà. Dal massimo al minimo: il migliore regala di sé al primo subalterno, che a sua volta beneficia il successivo perché ognuno tragga giovamento e stimolo a migliorarsi.
Mentre il paesaggio si fa vagamente collinare, Dennis si ferma ad un autogrill, giusto per sgranchire le gambe. Manca una mezza giornata e più all’incontro, ma lui, no, non può sbagliare nulla. Non vuole più sentire la tiritera: “per quella ridicola paura dell’aereo viaggia in macchina, si stressa e in campo non la prende mai”. Non pochi gli hanno addebitato la sconfitta nella finale Uefa del ‘2000, quella persa dall’Arsenal contro il Galatasaray a Copenhagen; ora si tratta del primo turno di Champions ma, no, se lo ripete, lui non vuole più sbagliare.
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