I migranti piemontesi di Nino Costa. La poesia amata da Papa Francesco

un transatlantico che portava i nostri emigrati in Argentina

Drit e sincer, cosa ch’a sun, a smijo:/teste quadre, puls ferm e fidic san/a parlo, poc ma a san cosa ch’a diso/bele ch’a marcio adasi,a van luntan/ Saraje, muradur e sternighin,/ minar e campagnin, sarun e fre:/s’a-j pias gargarisé quaic buta ed vin,/ j’é gnun ch’a-j bagna et nas per travajé/

Dritti e sinceri, sono veramente come appaiono.Teste quadre, polso fermo e fegato sano. Parlano poco, ma sanno cosa dicono. E anche se camminano adagio, vanno lontano. Fabbri, muratori, selciatori, minatori e contadini, carradori e fabbri ferrai, anche se a loro piace gargarizzare qualche bottiglia di vino, non c’è nessuno che li superi nel lavoro.

Questa poesia di Nino Costa poeta dialettale per passione, ma laureato in medicina veterinaria e bancario di professione illustra con versi semplici ma di una limpidezza affettuosa il carattere dei tanti nostri connazionali provenienti dal Piemonte e che tra fine Ottocento e inizio Novecento andarono a ingrossare la fiumana italica che si riversò in Sudamerica in cerca di fortuna. Gente semplice, che non inseguiva miraggi ma il desiderio di reinventarsi un’esistenza, affascinatra dalla prospettiva di grandi spazi, di una terra vergine, di potenzialità che sembravano infinite. I resoconti storici sono pieni delle loro peripezie di insuccessi e di grandi conquiste. Ci fu chi sgobbò tutta la vita nell’anonimato, ma anche chi si inserì talmente bene nel tessuto del continente da dare il proprio nome addirittura a un quartiere di Buenos Aires. Nulla però più di questa sempicissima lirica li descrive a pieno. E non per nulla questi versi hanno un testimonial d’eccezione. Papa Bergoglio, nipote di Giovanni e Rosa, piemontesi, sbarcati a Buenos Aires il 14 febbraio del 1929, li conosce a memoria e li tiene sempre con sé assieme al breviario.

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