Contemplazione

stadiodi Paolo Marcacci

Guardare la gente: la cosa che gli piaceva più di tutte, forse.

Quelli che camminavano gesticolando, sostenendo con animosità una tesi qualsiasi della quale lui riusciva ad origliare un frammento; quelli che invece frettolosamente, con un passo non giustificato dall’ora tutt’altro che tarda, sembravano voler bruciare sul tempo tutti gli altri o magari solo l’ansia che gli pulsava dentro, insopprimibile sin dal risveglio. Quegli altri che al contrario il passo lo rallentavano ad arte, che riuscivano ad inventare focolai d’interesse lungo il tragitto pur di perdere tempo: incrociavano sempre qualcuno da salutare, qualcun altro cui fare un cenno, un qualcosa da indicare per spendere qualche secondo di parole, dilatare il tempo in modo tale da non dargli l’importanza che le lancette avrebbero cominciato a rivendicare. Forse una forma diversa della stessa ansia, in fondo.

I gruppetti, in cui ce n’era sempre uno che rimaneva indietro di qualche passo, come fosse una regola non scritta; lo sguardo dei bambini, ingordo di ogni particolare, anche quelli talmente abituali da scomparire nella consuetudine.

Le donne erano sempre le più sorridenti, mai da sole; a volte sole in un gruppo di uomini, questo sì. Dietro al sorriso, una fierezza assoluta, una dedizione che nulla avrebbe scalfito. Apparentemente più serene e scanzonate, in realtà più convinte: di loro, quale che fosse l’età, non poteva mai dire che ci fossero perché trascinate da un gruppo o da un fidanzato.

Seduto sulla panchina verde, ogni tanto spiegava il quotidiano stropicciato per leggere un trafiletto o la parte mancante di un articolo cominciato qualche minuto prima; nel compiere l’operazione faceva in modo di stendere il braccio in modo che l’orologio venisse fuori dal polsino e dalla manica del giaccone verde militare. Quasi come la panchina, ma più scuro. Aveva sempre l’impressione che i minuti variassero ad arte il ritmo con cui trascorrevano, come per fare un dispetto a chi attende qualcosa. Nel cuore del pomeriggio si sarebbe, come al solito, trovato a considerare che il tempo ti fa un dispetto: quando hai bisogno che passi più in fretta, ti fa il difetto di rallentare; quando invece vorresti che ti aspettasse, ti sfugge di mano per farti il solito scherzo, cioè ricordarti quel qualcosa che ti è mancato, quel motivo a volte microscopico per cui le cose non vanno come le avevi pensate.

Di quando in quando, gli capitava di riflettere sul fatto che quei momenti erano quelli in cui si sentiva più solo, proprio lì e nonostante tutto quello che attorno si risvegliava, cresceva, arrivava a sfiorarlo, lo inglobava. Era una sensazione serena ma presente, nonostante ci fosse quasi sempre qualcuno che doveva raggiungerlo, al medesimo posto, secondo una consuetudine che s’era stabilita da sé.

Il volto dell’uomo all’interno del camioncino era inespressivo come sempre, con lo sguardo puntato nel vuoto oltre l’ultimo viso di quelli che erano in fila: chissà a cosa pensava mentre stringeva la carta oleata a mo’ di caramella e dispensava qualche tovagliolo di carta; quello lì si sentiva ancora più solo di lui, ci avrebbe scommesso.

Poi capisci sempre, a un certo punto, che arriva il momento di alzarti, senza che nessuno te lo debba spiegare. Semplicemente cambia qualcosa, fosse anche soltanto il profumo dell’aria, quando riesci a sentirlo. Lui aveva l’abitudine di tastare il taschino del giaccone per sentire la presenza rassicurante di quel rettangolo di carta ripiegato con cura: il biglietto era sempre lì.

Entro un paio di minuti lo stadio lo avrebbe accolto, come ogni volta.

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