Citybike

bicidi Paolo Marcacci

Mi rendo conto che a volte faccio in modo di non guardarti, come se non esistessi o ti avessi già data via. Invece sei ancora là, accanto all’alberello di limone che mi lasciò il proprietario precedente, su questo balcone (o “giardino pavimentato”) che corre lungo tutta la facciata della palazzina.  Quando mi ricordo di curare l’edera, quando ammucchio con la ramazza le foglie secche o spruzzo l’acqua per pulire le mattonelle, ogni tanto t’intrufoli nel campo visivo e mi appari come un’intrusa della vita di ieri in quella di oggi: la ruota posteriore smontata, il copertone col battistrada quasi integro ma ormai indurito, la catena pendula come il ramo di un salice, il telaio in alluminio che riluce nonostante l’esposizione agli agenti atmosferici, gli accessori con cui corredai la tua natura ibrida: elegante per il passeggio, sportiva nelle ventuno marce che mi aiutavano a salire ovunque, quando stavamo sempre assieme. La copertura impermeabile che non è più tale, ridotta in strisce verticali dalle unghie dei gatti che si trovano a passare, lascia che lo specchietto ripiegato con cura rifletta, quando c’è il sole, lampi di un passato che sembra recente e lontanissimo, di quando “vivevamo” a San Pietro, rione Fornaci: io non ancora sposato, tu sempre tirata a lucido, la catena ingrassata in maniera maniacale, il cambio registrato da mio zio ogni due settimane.
Ti tenevo, per un affitto di dieci Euro al mese, nel garage di Tonino, il benzinaio, legata dietro il cancello e coperta in modo tale che le gocce di pioggia non arrivassero a sfiorarti neppure quando rimbalzavano sul catrame.

Quando proprio non posso fare a meno di guardarti scopro, di volta in volta, che riesco a provare nostalgia pure per un posto dove di regola capito almeno un paio di volte a settimana. Non mi tornano in mente tanto le domeniche da sessanta chilometri, quando si partiva con ogni clima alle otto del mattino e la prima tappa era la colazione in Piazza del Popolo: cappuccino con la schiuma e cornetto integrale col miele, il mio preferito.

No, mi viene molto più naturale ricordare le serate, da marzo a novembre, in cui dopo cena scendevo alla pompa di Tonino, aprivo il cancello e ti slegavo: col fresco scendevamo per il sottopassaggio di Porta Cavalleggeri, costeggiavamo il Colonnato, poi non avevamo che da scegliere: Via della Conciliazione fino a Castel Sant’Angelo, Via Cola di Rienzo fino a Piazza del Popolo, oppure direttamente in centro, sempre passando per Via Giulia che ogni volta ci pareva una scoperta.

Ho avuto spesso la sensazione che fossi tu a portarmi ed era la più bella tra quelle provate quando uscivo con te. Sono stato ricco e non l’ho saputo, come fa dire Pasolini ad uno dei suoi ragazzi di borgata in “Una vita violenta”.
A giugno, cominciavamo a fermarci al chiosco delle grattachecche accanto al fontanone, alla fine delle nostre passeggiate, all’ora in cui la fila comincia a diradarsi e le voci dei turisti che tornano in albergo si distinguono una per una. Mi fosti regalata da quella mia ex che avrei dovuto lasciare molto tempo prima dei cinque anni che trascorsero, ma nessuno è perfetto, neppure tu che sei un’Atala.
Ogni volta che su internet mi metto a spulciare tra le offerte per una nuova bici, mi ritrovo sempre a cercare le caratteristiche che avevi…Che hai tu, basterebbe solo rimetterti in sesto.
Sapete che c’è? Quando non vogliamo deciderci a gettare un qualsiasi oggetto, conservandolo per chissà quanto tempo in modo che rappresenti (apparentemente) solo un ingombro e nulla più, non è mai per prigrizia, negligenza o mancanza di tempo. E’ che sappiamo, senza volerlo ammettere con noi stessi, che se ci decidessimo a fare piazza pulita se ne andrebbe assieme a ciò che gettiamo quello che siamo stati, quella parte della nostra vita che ci è piaciuta così tanto e che l’oggetto mantiene viva con la sua presenza.

Avrete capito che ho lo sgabuzzino pieno di cose che sembrano inutili.

Lascia un commento